L’allenamento ad Alta Intensità HIIT
di Filippo Spolverato
Partiamo spiegando che cos’è Hiit? HIIT (High Intensity Interval training) è un metodo di allenamento efficace che fa parte della grande famiglia degli interval training, dove si alternano brevi periodi di allenamento ad alta intensità con periodi di recupero attivo o passivo.
Studi scientifici dimostrano come questo tipo di allenamento possa influire in maniera importante sulla perdita di peso e l’aumento della performance atletica di chi lo pratica. L’effetto più interessante che genera questo tipo di allenamento è l’aumento del tasso metabolico a riposo nelle ore successive al training, definito anche effetto EPOC. Questo effetto causa una serie di processi biochimici che aumenta il consumo di ossigeno nel periodo post-workout.
Burgomaster et al (2008) hanno messo in evidenza che 6 settimane di HIIT incrementano la produzione di (PGC)-1α del 100% in soggetti sani. Date le evidenze che mettono in relazione modesti incrementi nella (PGC)-1α muscolare con il miglioramento a carico di capacità ossidativa, sistema di difesa anti-ossidante, uptake del glucosio, capacità di contrastare la sarcopenia età-correlata e i vari pathways anti-infiammatori (Sandri et al. 2006; Benton et al. 2008; Wenz et al. 2009), l’ incremento nella (PGC-1)α che fa seguito alle sedute di HIIT è alla base dell’ enorme potenziale di benefici che esso ha in termini di salute. In aggiunta, l’ HIIT è caratterizzato nel post-workout da una maggiore dissipazione di calorie rispetto ad un allenamento aerobico tradizionale: si definisce EPOC (Excess Post-exercise Oxygen Consumption) l’ incremento del metabolismo totale e del dispendio energetico che fa seguito alle ore successive all’ allenamento, e l’ HIIT ha un EPOC del 15% superiore rispetto ad un classico training aerobico.
Altri studi ci dicono che l’ impatto del training intervallato ad alta intensità sulla funzione e sulla struttura cardiovascolare: un periodo pari a sole 2 settimane di HIIT Wingate-Based (picchi di 30 secondi di corsa ad altissima intensità separati da pochi minuti di recupero, ripetuti 4-6 volte) ha incrementato la capacità cardiorespiratoria, come riflesso dalla variazione del più alto valore di consumo di ossigeno raggiunto durante test da sforzo (VO2 di picco) (Whyteet al. 2010). Sembra inoltre che il training intervallato ad alta intensità sia superiore allo Steady State Training (allenamento aerobico a frequenza cardiaca costante) nell’ aumentare il VO2max: 8 settimane di HIIT hanno infatti portato ad un aumento del VO2max del 15%, rispetto al training aerobico prolungato (che ha indotto un incremento del 9%).
Un lavoro pubblicato nel 2014 ha dimostrato che 4 mesi di HIIT, svolto mediamente per 20 minuti 2 volte a settimana, non solo hanno portato ad un significativo miglioramento della capacità aerobica, ma anche al dato interessante di una ipertrofia muscolare a carico del muscolo grande psoas, della muscolatura della parete addominale antero-laterale e del quadricipite femorale; dunque 16 settimane di HIIT inducono incrementi della massa muscolare riguardanti sia la porzione inferiore che quella superiore del corpo (Y. Osawa, et al – 2014).
Andiamo ora ad esaminare alcune “routine” di training basato sulla metodologia HIIT:
Attualmente i regimi maggiormente validati in ambito scientifico sono i seguenti:
- ProtocolloTabata:
Si tratta di una versione di HIIT basata su un lavoro scientifico del Prof. Izumi Tabata (1996). Il protocollo prevede 20 secondi di esercizio ultra-intenso, svolto approssimativamente al 170% del VO2max, seguiti da 10 secondi di riposo. Il loop deve essere ripetuto per 4 minuti, così da svolgere 8 picchi di attività ultra-intensa.
- ProtocolloGibala.
Basato su studi durati anni del team del Prof. Martin Gibala. Pubblicato nel 2009. Il protocollo prevede 3 minuti di riscaldamento, 60 secondi di attività fisica intensa (al 95% del VO2max) seguiti da un recupero di 75 secondi. Il tutto ripetuto per 8-12 volte.
Nel 2011 Gibala ha pubblicato su Medicine & Science in Sport and Exercise una modalità più “soft” del suo regime, intesa per soggetti sedentari o inattivi da oltre un anno, costituita da un warm-up di 3 minuti, picchi di 60 secondi con 60 secondi di recupero ripetuti per 10 volte, e 5 minuti di defaticamento.
- ProtocolloTimmons:
James Timmons, professore di Biologia dei Sistemi presso l’ Università di Loughborough, ha proposto nel 2012 un protocollo basato su 3 picchi di 20 secondi di corsa sostenuta al massimo sforzo possibile, alternati da 2 minuti di pedalata blanda.
Sto già leggendo attraverso le vostre menti, e il pensiero che vedo affiorare da parte vostra è il seguente: “meglio la corsa costante e prolungata o meglio l’HIIT?”
L’ 1 marzo del 2009 veniva pubblicato ad opera degli antropologi Daniel Lieberman e Campbell Rolian un articolo dal titolo “Walking, running, and the evolution of the short toes in humans” sul Journal of Experimental Biology.
Questo lavoro evidenziava che l’ incremento della lunghezza delle dita del piede riscontrato nei nostri antenati ominidi aumentava del 20% il lavoro meccanico durante la corsa mentre non aveva alcun effetto nel cammino normale, suggerendo che le proporzioni moderne dell’ avampiede umano, con dita corte e sottili, potrebbero essere state selezionate in un contesto evolutivo atto a favorire la corsa su lunghe distanze. Un gruppo di scienziati iniziò a credere che “ultra maratoneti” quali Ann Trason e Matt Carpenter in realtà non farebbero altro che specializzare i loro corpi in una modalità affine a quella già utilizzata dai nostri antenati.
Nacque così la “Endurance Running Hypotesis” secondo cui la capacità di correre su lunghe distanze, spaziali e temporali, non sarebbe altro che un tratto evolutivo correlato alla necessità di ricerca del cibo, arrivando addirittura ad ipotizzare che possa essere stato l’elemento chiave a spingere l’ evoluzione del genere Australopithecus verso l’ Homo Erectus.
I nostri predecessori ominidi del genere Australopithecus, di cui Lucy rappresenta l’ esemplare più noto, avevano infatti dita del piede significativamente più lunghe rispetto a quelle che caratterizzano l’ avampiede umano; cosi fu facile per Lieberman affermare che il momento di forza generato a livello delle articolazioni metatarso-falangee avrebbe causato seri problemi in termini di efficienza nella corsa, e che l’ attuale adattamento evolutivo sia la risposta alla necessità che i nostri antenati avevano di correre su lunghe distanze (Rolian et al – 2009).
In considerazione delle attività svolte dai nostri antenati, sulla base delle quali si sono strutturati nel DNA i sistemi energetici che ne hanno consentito la sopravvivenza e l’evoluzione, l’ ideale sarebbe dunque disegnare un piano di allenamento caratterizzato da attività aerobica a medio impatto (corsa jogging o allunghi in progressione su distanze attorno ai 100m/150m) intervallata da “picchi di intensità elevata” (“sprints”, o qualunque altra attività purchè effettuata ad alta intensità) della durata di 20-30-40 secondi.